Il Consiglio federale approva il rapporto sulla certificazione delle aziende rispettose delle pari opportunità

Berna, 12.12.2008 - Il rapporto redatto in risposta a un postulato (06.3035) evidenzia che la certificazione delle aziende rispettose delle pari opportunità non incontra il favore delle parti sociali. Il Consiglio federale ha quindi deciso di rinunciarvi proseguendo sulla via tracciata in materia di promozione dell’uguaglianza tra donna e uomo nella vita professionale.

Il Consiglio federale ritiene importante incoraggiare le aziende ad attuare una politica del personale rispettosa delle pari opportunità e richiama l’attenzione sugli strumenti sinora utilizzati tra i quali figura il marchio Equal Salary. Lanciato con successo grazie agli aiuti finanziari, Equal Salary offre alle imprese un metodo per la verifica della parità salariale consolidato e in linea con gli strumenti utilizzati dalla Confederazione in materia di acquisti pubblici (Logib). Il Consiglio federale accoglie con favore la disponibilità delle parti sociali di lottare contro le disparità salariali discriminatorie. Infine, con gli aiuti finanziari erogati conformemente alla legge sulla parità dei sessi e prossimamente accessibili anche alle aziende, la Confederazione dispone di uno strumento efficiente per promuovere in modo mirato l’uguaglianza tra donna e uomo nella vita professionale.

Il Consiglio federale rinuncia per contro all’introduzione di una certificazione delle aziende rispettose delle pari opportunità. Come evidenziato nel rapporto approvato in data odierna, i marchi sono essenzialmente una prerogativa dell’economia privata. Inoltre tra le parti sociali il grado di accettazione di una simile certificazione è scarso. I sindacati preferiscono strumenti di controllo più incisivi, mentre i datori di lavoro esprimono pareri contrastanti: alcune grandi imprese, già attuatrici di misure a favore dell’uguaglianza, sono contrarie a una proliferazione di marchi e propendono piuttosto per la creazione di label come “The best place to work” o “Diversity”. Infine, neppure le PMI risultano interessate all’introduzione di un marchio di parità, visti i costi che potrebbe generare.


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